INCONTRI
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incarico, ad eccezione di coloro che sono andati in pensione,
tutti coloro che lavoravano per me erano ancora lì. E questo
dimostra chiaramente che ho fatto qualcosa di buono”.
È probabile che lo stile manageriale che ha portato a un tale
successo non cambierà di molto, ma Burton, che ama leggere
le biografie dei presidenti americani, ritiene che la sua espe-
rienza di collaborazione con i passati presidenti del Rotary lo
aiuterà ad avere l’approccio più efficace.
“Non voglio escludere nessuno di loro, ma ci sono dei presi-
denti che mi vengono in mente: Bill Boyd ha avuto un grande
impatto su di me, lui è un grande comunicatore. Ho imparato
tanto sulla tolleranza da Carlo Ravizza. Jim Lacy faceva sem-
pre delle ottime riunioni e aveva un approccio molto profes-
sionale. Jon Majiyagbe è un grande esempio per me, come
persona gentile e affabile. E poi mi viene in mente Frank
Devlyn. E vi dico una cosa: se non vi piace Frank Devlyn,
allora voi non piacete a me. E questo è tutto”.
Osservare, esprimendo in modo semplice e diretto le sue
impressioni è la caratteristica più evidente, ed anche il punto
di forza più evidente di Burton. “Vorrei tanto che i miei con-
nazionali potessero avere l’opportunità di andare in uno dei
Paesi poveri nei quali i Rotariani si stanno tanto impegnando,
per potersi rendere veramente conto di tutto ciò che abbiamo
noi qui”.
Burton non dubita di aver avuto una vita molto fortunata. “Ho
avuto una bella vita. Una bella famiglia d’origine, e quando
penso ai nostri figli e nipoti, penso che anche loro abbiamo
avuto tanto. Certo, ci si preoccupa sempre, e ci si augura
sempre il meglio per la propria famiglia. Io ritengo che il Ro-
tary mi offra la possibilità di aiutare a migliorare il mondo e
dare una vita migliore al prossimo, non solo ai miei nipotini,
ma anche ai nipotini di altre persone”.
Tra un anno, Burton penserà all’anno appena finito e valuterà
i successi alla maniera dell’Oklahoma: “Alla fine, mi auguro
di lasciare una catasta di legna un po’ più alta di quella che
ho trovato!”
DI JOHN REZEK